Il 60% dei paesi democratici che hanno firmato la convenzione ONU contro la tortura del 1984 continuano ad applicarla come mezzo di coercizione, interrogatorio e manipolazione e metà della popolazione mondiale vive sotto governi che la praticano.
L’articolo 5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani cita: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”.
Nonostante ciò, ancora oggi migliaia di persone subiscono torture ogni giorno, in ogni parte del mondo.
La tortura è l’imposizione sistematica del dolore: una ricerca di Amnesty International evidenzia come le percosse siano ampiamente il metodo più diffuso in oltre 150 paesi e vengono inflitte con pugni, bastoni, calci di pistola, fruste improvvisate, fratture, fino a danni ad organi vitali e alla morte. Tra i metodi di tortura più comuni ci sono l’elettroshock (accertato in 40 paesi), la sospensione del corpo (in 40 paesi), i colpi di bastone sulla pianta dei piedi (oltre 30 paesi), il soffocamento (oltre 30 paesi), le finte esecuzioni e minacce di morte (oltre 50 paesi) e le detenzioni in isolamento prolungate (oltre 50 paesi).
Con percosse o con metodi di distruzione psicologica la tortura sottomette, terrorizza, annichilisce e lede nel profondo la dignità umana perché costringe ed estorce senza tenere in alcuna considerazione la libertà.
In contrasto alla sua diffusione come metodologia praticata, il 26 giugno 1987 entra in vigore la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (UNCAT) e, sempre nello stesso giorno, si celebra la Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con Risoluzione A/RES/52/149 del 12 dicembre 1997: un’opportunità per chiedere a tutte le parti interessate, compresi gli Stati membri delle Nazioni Unite, la società civile e gli individui di tutto il mondo, di riunirsi a sostegno delle centinaia di migliaia di persone che sono state vittime di torture e di coloro che lo sono ancora.
A trentuno anni dall’entrata in vigore della Convenzione, il 60% dei paesi democratici firmatari la convenzione ONU contro la tortura del 1984 continuano però ad applicarla come mezzo di coercizione, interrogatorio e manipolazione e circa metà della popolazione mondiale vive sotto governi che la praticano. L’Italia, ad esempio, non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale (gli atti di tortura rientrano nei reati di “lesioni personali” o “abuso d’ufficio”).
Vittime di tortura sono soprattutto i migranti. Un numero che secondo dati recenti diffusi dall’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, si aggira intorno alle 65 milioni di persone che in tutto il mondo sono costrette a fuggire dal proprio paese per motivazioni politiche, economiche o sociali. Comparato a precedenti ricerche, risulta un numero senza precedenti e in continuo aumento negli ultimi anni. Di queste persone, inoltre, circa 22.5 milioni sono rifugiati, ovvero perseguitati secondo la definizione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni. A livello globale, con una popolazione mondiale di 7.349 miliardi di persone, questi numeri significano che una persona su 113 è oggi un richiedente asilo, sfollato interno o rifugiato. In tutto, la quantità di persone costrette alla fuga è più alta del numero di abitanti della Francia, Regno Unito o Italia.
A destabilizzare le vittime è soprattutto la valenza politica della tortura non considerata un’eccezione, un abuso di un sistema di potere, ma uno strumento deliberatamente scelto e attuato per cancellare ogni possibile opposizione. Secondo rinomati psicologi, l’obiettivo della tortura non è la ricerca della verità ma la distruzione della personalità, delle sue motivazioni politiche, dei legami affettivi e della molteplicità dei tratti che lo distinguono come individuo. Nelle vittime resta soprattutto la vergogna di non essere più uomini, di essere nudi e strappati dalla loro intimità.
Secondo un rapporto di Amnesty International, tra i paesi che praticano la tortura con allarmante frequenza in un clima di complessiva impunità, si annoverano Filippine, Marocco, Messico, Nigeria e Uzbekistan.
Altra zona al centro del rapporto è il confine tra Croazia e Bosnia: negli ultimi tre anni la polizia croata di frontiera avrebbe aggredito regolarmente uomini, donne e adolescenti che cercavano di entrare nel paese, distruggendone gli effetti personali prima di respingerli in Bosnia e, a volte, togliendo abiti e scarpe e costringendoli a camminare per ore nella neve e in fiumi ghiacciati.
I respingimenti violenti alle frontiere croate avvengono con regolarità dalla fine del 2017. Il Consiglio danese per i rifugiati ha registrato solo nel 2019 quasi 7.000 casi di espulsioni forzate e rinvii illegittimi in Bosnia ed Erzegovina, la maggior parte dei quali accompagnate da violenze e intimidazioni ad opera della polizia croata. Nonostante una piccola pausa registrata durante il lockdown a causa della pandemia da Covid-19, i respingimenti ora hanno ripreso ad essere protagonisti proseguendo con 1600 casi riportati solo ad aprile e le cifre stanno aumentando quotidianamente con l’allentamento delle restrizioni in tutta la regione e il miglioramento delle condizioni climatiche.
Tra le innumerevoli vittime che oggi stanno vivendo azioni di tortura nel mondo, si ricorda il Premio Sacharov per la libertà di pensiero nel 2012 Nasrin Sotoudeh: un’avvocata iraniana membro dell’Associazione dei difensori dei diritti umani, attivista impegnata nella difesa delle donne che si oppongono all’obbligo di indossare il velo e nel contrasto alla pena di morte. Nasrin è stata arrestata il 13 giugno 2016 e condannata in contumacia a 33 anni di carcere e a 148 frustate per il suo attivismo per i diritti umani, si trova attualmente detenuta presso prigione di Evin dove, secondo la notizia diffusa da Amnesty lo scorso 19 marzo, ha annunciato l’inizio di uno sciopero della fame per chiedere il rilascio di tutti prigionieri politici in Iran. La Comunità internazionale ha chiesto la sua liberazione con formali provvedimenti ad oggi rimasti tutti senza esito.
L’eliminazione della pratica della tortura nel mondo costituisce una delle maggiori sfide delle Nazioni Unite e per ostacolare tale crimine sono state adottate diverse riforme come l’istituzione del Comitato contro la tortura ad opera dell’UNCAT che si occupa di monitorare l’implementazione della Convenzione e nel 2007, tramite protocollo opzionale, l’istituzione del Sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura: un nuovo meccanismo con mandato preventivo che visita, assiste e consiglia gli Stati Parte. Nel 1981 invece, l’Assemblea generale istituisce un Fondo Volontario delle Nazioni Unite per le Vittime di Tortura per fornire un valido supporto mentre nel 1985, l’allora Commissione Diritti Umani decide di istituire la carica di Relatore speciale sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
In questa giornata è bene infine ricordare sempre le ultime parole pronunciate da George Floyd, afroamericano deceduto a Minneapolis il 25 maggio scorso dopo che un agente di polizia gli ha tenuto il ginocchio sul collo per quasi nove minuti: “Per favore, non riesco a respirare”. Una richiesta di aiuto mai ascoltata perchè George Floyd è morto dopo pochi minuti.