Risparmio di costi, maggiore fiducia ai lavoratori e potenziamento del senso di appartenenza all’azienda ma anche stress lavoro correlato e difficoltà nelle relazioni: i pro e i contro dello smart working in epoca Covid-19
Il Covid-19, si sa, ha cambiato le abitudini di vita della maggior parte delle persone e tra queste rientra anche il lavoro: lavoratori e datori di lavoro hanno dovuto riconsiderare un sistema che fino a quel momento sembrava insindacabile.
Tra gli elementi che più stanno caratterizzando questo periodo si annovera lo smart working e, i dati relativi al suo utilizzo parlano chiaro e sono importanti: prima del Coronavirus gli smart worker in Italia erano 570 mila, e già nel 2019 si registrava una crescita del 15%. Ora, tale incremento è del 1.050% e gli smart worker italiani sono 6,58 milioni.
Per smart working si intende una nuova filosofia manageriale fondata sulla “restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Questa la definizione fornita dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano che, grazie ad una ricerca condotta sull’argomento, ha evidenziato come dal 2013 al 2019 la quota di lavoratori in smart working è quasi quadruplicata, passando da 150mila persone a 570mila.
Dati simili arrivano da una recente ricerca dell’Istat (Istituto Nazionale di Statistica): il 90% delle grandi imprese italiane (cioè con più di 250 addetti) e il 73% delle imprese di dimensione media (50-249 addetti) hanno introdotto o esteso lo smart working durante l’emergenza, contro il 37% delle piccole (10-49 addetti) e il 18% delle microimprese (3-9 addetti). Per offrire un’idea più precisa, a gennaio e febbraio 2019 il personale a distanza era l’1,2 per cento del totale, a marzo – aprile era diventato l’8,8 per cento.
In tema di produttività, invece, secondo Microsoft, l’87 per cento degli italiani ha riscontrato in questi mesi di pandemia una produttività pari o superiore rispetto a quando lavorava in ufficio.
“L’incidenza della pandemia sulla produttività è stata variegata – commenta Stefano Vergani, presidente di Aisom, Associazione Nazionale delle Imprese – Se prendiamo, ad esempio, una ditta con processi automatizzati, il rendimento è stato nettamente inverso rispetto ad un’azienda che lega la produttività alla presenza fisica. Quello che invece ha accomunato quasi tutte le realtà aziendali in termini di strategie adottate è stato l’investimento in comunicazione, ritenendo indispensabile un potenziamento in tale senso, per avvicinarsi agli altri in un momento caratterizzato da difficoltà comunicative e relazionali. Diverse aziende hanno ritenuto importante investire nei social – continua Vergani – per raggiungere target che prima non si prendevano in considerazione perché non istituzionali. La pandemia ha spronato la direzione aziendale a pensare a cambiamenti strategici strutturali e di business. Molte imprese hanno compensando delle sofferenze inventando nuove modalità di lavorare sullo stesso ambito produttivo o su nuovi asset lavorativi e la comunicazione e il supporto dei social sono risultati indispensabili in questo processo. Un’importante spinta verso questo tipo di investimenti è arrivata anche da clienti internazionali che hanno sollecitato nuove forme di comunicazione”.
Sempre in tema di smart working, diverse ricerche sono state condotte sull’analisi dei pro e dei contro di questa modalità di lavoro.
Tra i pro, è stato evidenziato un risparmio di costi sia per le aziende e sia per i lavoratori. Le prime hanno risparmiato, ad esempio, in termini di corrente elettrica, avendo quasi tutti i lavoratori in smart working o di costi di trasferte, quasi tutte azzerate e sostituite dalle riunione on-line mentre, il lavoratore ha ottenuto un risparmio di costi soprattutto per quanto riguarda il trasporto.
Rimanendo sempre tra i pro, è stato evidenziato come sia i lavoratori e sia le aziende hanno investito molto di più in percorsi formativi: “fino al momento della pandemia, le risorse non riuscivano ad utilizzare il tempo da destinare alla formazione perchè i ritmi di lavoro non consentivano di fermarsi anche solo per mezza giornata per seguire un corso – commenta Vergani – Una mole di lavoro ridotta ha invece consentito di seguire diversi corsi come quelli legati alla gestione della privacy o al tema Covid o, ancora, come curare le relazioni a distanza con i clienti in un momento in cui non si potevano raggiungere di persona o anche corsi su come gestire gli scambi di idee o come organizzare i documenti, come condurre indagini statistiche, come lanciare iniziative e suggerimenti alla propria azienda. L’investimento in formazione ha rappresentato un aspetto molto positivo di questo periodo sia per le aziende e sia per i lavoratori. Le prime hanno investito sui loro dipendenti e i secondi hanno appreso nuove nozioni o modalità, migliorando il loro percorso formativo. E’ indubbio che questa situazione ha messo in moto meccanismi di rinnovamento e ripensamento”.
Tra gli aspetti positivi risuona anche una maggiore fiducia riposta sui lavoratori da parte delle aziende. “Da sempre l’azienda italiana ha fondato la sua politica sul controllo del dipendente che doveva presenziare la sua postazione in ufficio ogni giorno – afferma Vergani – Lo smart working, al contrario, ha richiesto fiducia! Il lavoratore, inoltre, lavorando da casa ha maggiormente sviluppato il senso di appartenenza all’azienda sentendosi più fiero di farne parte. Sentimenti che prima erano molto meno evidente”.
Arrivando invece ai contro, tra gli elementi maggiormente patiti dai lavoratori dopo un lungo periodo di smart working rientra la mancanza di rapporti umani con i colleghi che, sul lungo periodo, ha provocato importante stress.
“In questo periodo abbiamo assistito al verificarsi di situazioni di stress lavoro correlato – continua il presidente – Ossia quello squilibrio che il lavoratore percepisce quando le sue capacità non sono commisurate alle richieste dell’ambiente lavorativo. E’ indubbio che lo smart working sia stato uno strumento indispensabile per portare avanti il proprio lavoro ma allo stesso tempo, tutto ciò che vi era attorno, ossia la mancanza di relazioni con i colleghi, o ancora l’intera situazione creata dalla pandemia come la difficoltà nell’uscire, l’indossare sempre la mascherina, il lavarsi spesso le mani, il distanziamento, ha generato uno stress diffuso che ha creato indubbiamente ripercussioni anche nel lavoro e nella relazione tra il lavoratore e l’azienda”.
Una riflessione condivisa riguarda la possibilità che lo smart working possa diventare una modalità di lavoro da adottare anche in futuro, a emergenza sanitaria conclusa.
“Probabilmente il lavoro in remoto sarà adottato anche in futuro perché sia le aziende e sia i lavoratori hanno capito che esiste un’altra possibilità di lavorare che prima non conoscevano e che può funzionare e, allo stesso tempo, agevola alcune situazioni familiari o personali. Chiaramente dipenderà dal singolo caso, perché ci sono aziende che necessitano della presenza del lavoratore e per loro questa situazione rappresenterà una semplice parentesi. Dipenderà tutto dai processi aziendali. Ad esempio, riporto il caso di un’agenzia di comunicazione molto grande che, in questo periodo, ha voluto cambiare tutto, dall’aspetto logistico a quello pratico: ha investito in tecnologie per agevolare lo smart working, ha dimezzato gli spazi fisici dell’azienda, riducendo così costi importanti come quelli dell’affitto, prevedendo una parte dei dipendenti in presenza e un’altra a casa. Dall’altra lato, i collaboratori hanno riportato un’ottimizzazione in termini di costi legati agli spostamenti e un risparmio di tempo impiegato per andare in azienda. Lo sforzo che a mio avviso deve compiere l’azienda, e Aison per il suo ruolo, è di capire che la pandemia sta rappresentando più un’opportunità che un problema, sia per le aziende, sia per i lavoratori” – conclude Vergani.